Il Bostel è un sito archeologico che rappresenta una delle prime testimonianze abitative dell'Altopiano. Si trova nel Comune di Rotzo e negli ultimi anni è stato oggetto di importanti interventi di recupero e valorizzazione, come testimonianza di un passato per molto versi ancora sconosciuto, ma dal fascino irresistibile.
L'Archeopercorso del Bostel di Rotzo, finanziato dalla Provincia di Vicenza, dalla Comunità Montana dei Sette Comuni, dall'A.P.T. di Asiago e dal Comune di Rotzo e realizzato con un progetto collaborativo fra Università di Padova, Soprintendenza Archeologica per il Veneto e C.I.S.A.S. (Centro Internazionale di Studi di Archeologia di Superficie), ha il suo fulcro presso il sito del Bostel, località situata a sud della frazione di Castelletto. Il toponimo Bostel, di origine cimbra, significherebbe, come spiega l'abate Agostino Dal Pozzo, nativo del luogo, "stalla, ripostiglio da conservarvi le biade ed il fieno per l'inverno". Secondo G.B. Pellegrini (1984), i toponimi ricorrenti (specialmente in ambito trentino) del tipo bustel/pustel, indicherebbero invece: "parte dove stava un castello, 'rovine d'un castello'".
Posto ad un'altitudine di 850 m. s.l.m., il Bostel si presenta come un'altura ventosa e ben soleggiata, strutturata a terrazzi con erba da pascolo e orti coltivati a patate: il dislivello fra la quota media del pianoro ed il fondo della vallata sottostante in cui scorre il torrente Assa è di circa 450 m. Sul lato occidentale il pendio è abbastanza erto e, con cengette e spuntoni rocciosi discontinui, degrada altrettanto rapidamente sul fianco idrografico sinistro della valle dell'Astico. Il sito si trovava così in una posizione ottimale in termini di controllo potenziale del territorio circostante e, in effetti, dovette rivestire una funzione nodale in una rete di scambi di un'economia basata soprattutto sul flusso delle risorse pastorali e minerario/metallurgiche.
Il progetto dell'archeopercorso si inserisce in un ambito emergente di "Amministrazione delle Risorse Eco-Culturali". Elemento fondamentale per la realizzazione di un percorso archeo-turistico o, ancor di più, di un percorso con caratteristiche di vero e proprio parco archeologico, è la riqualificazione della fruizione della consistenza archeologica, attraverso un restauro-musealizzazione all'aperto o realizzazioni di tipo archeo-sperimentale che, condotte in maniera scientifica, permettano al visitatore un immediato confronto tra il deposito archeologico (statico) e lo "scenario" (dinamico) presumibile del passato, in una forma di pseudo-contatto ("touch the past" - "tocca il passato") di mirato impatto cognitivo ed emozionale. In questo ambito l'elemento portante per la fruizione di un'area è dato dall'organizzazione dei percorsi e dei sentieri e dalla loro relativa pannellistica: una serie di percorsi "interni" ed "esterni" all'area archeologica permette infatti di allargare l'interesse del visitatore anche verso l'aspetto naturale che lo circonda (risorse vegetali, animali, morfologiche, geologiche, mineralogiche…) e verso altri tematismi culturali localmente rilevanti (ad esempio di estrazione storica, storico-artistica o etnostorica/ etnoarcheologica: dall'archeologia religiosa a quella della guerra a quella del contrabbando di tabacco, delle calcare, carbonare, dei confini, e fino alla cosiddetta "archeologia della mente"…), in un circuito che risulta quindi essere, a tutti gli effetti, un percorso "eco-culturale". È proprio nell'epicentro di questo percorso che trova posto il progetto-chiave di ricostruzione archeo-sperimentale della cosiddetta "casetta A" (scavi G.B. Frescura 1969), quale istanza eticamente qualificata di una "archeologia pubblica", in un percorso immersivo -"della mente e del piede"-, per ritrovare le nostre radici: un'archeologia, quindi, di noi e per noi…